Coltivare la speranza. La cooperativa "Nuvoletta per Salvatore"
«Se la camorra, le mafie esistono, la responsabilità è anche nostra, perché non abbiamo evitato che questi semi cattivi crescessero. Noi, ora dobbiamo dire basta, dobbiamo far capire che le mafie al sud hanno determinato solo arretramento e povertà, dobbiamo costruire speranza per le generazioni future, ma non con le parole, con il fare, sporcandoci le mani in questa straordinaria terra.
Ognuno di noi deve piantare semi nuovi, a partire proprio da questo bene confiscato. Che certamente non è nostro. E’ dello Stato, è della collettività, è di tutti. Qui si coltivano e crescono la libertà e la responsabilità». Arturo Nuvoletta, fratello di Salvatore, il giovane carabiniere ucciso dalla camorra il 2 luglio 1982 a Marano, sua città natale, quando aveva solo 20 anni, accoglie con queste parole i ricercatori del progetto Ru.s.h. (con lo scrivente, Tonino Pellegrino e Pasquale Gaudino), in visita sui beni confiscati di via Marano – Quarto, gestiti dalla cooperativa “per Salvatore Nuvoletta”.
L’impegno di una famiglia
Oltre 2800 mq di terreno (sui quali insistono alcuni fabbricati) coltivati con i prodotti tipici di questa terra, dai friarielli ai broccoli, dalle scarole alle insalate, alle fave ai piselli. E poi un vigneto storico di altri 6000 mq dalle cui uve, a marzo, saranno realizzate le prime bottiglie di falanghina dop dei campi flegrei «Stiamo ancora individuando il nome. Sarà intitolato ad una vittima innocente di camorra e vorremmo che l’indicazione venisse proprio dalle associazioni impegnate nel conservane e promuoverne la memoria. Quest’anno avremo le prime 1500 bottiglie, ma l’obiettivo minimo sarà arrivare a 5 mila bottiglie l’anno» ci spiega il presidente della cooperativa, Manuel Nuvoletta, giovane studente di agraria, figlio di Arturo, che da dicembre 2014, quando questi terreni sono stati affidati alla sua cooperativa, ogni giorno dell’anno viene a zappare, seminare e coltivare la terra, curare gli animali da cortile, realizzare i lavori di manutenzione necessari, accogliere le tante persone che iniziano a riappropriarsi di questo luogo. Lo fa con il padre, che è stato poliziotto ed oggi è in pensione, e gli zii, anche loro carabinieri in pensione, tra cui Enrico, che è stato anche nella scorta del generale Dalla Chiesa. La storia di questo bene confiscato è strettamente legata a quella della famiglia Nuvoletta, che ha deciso di fare memoria viva di Salvatore impegnandosi direttamente per restituire ai cittadini maranesi un pezzo di questo territorio fertile dove cresce la ciliegia “Arecca” (siamo proprio nella zona “della recca”) ed è circondato da importanti (e dimenticati) resti archeologici: «Di Marano si parla solo nei racconti di cronaca nera, per fatti di sangue e di camorra» dice ancora Arturo «Noi invece siamo convinti che a Marano possano nascere nuove speranze e nuove reali occasioni di crescita e sviluppo nella legalità. Abbiamo il dovere di dare nuove e realizzabili speranze ai nostri giovani, far loro riscoprire la bellezza di questa straordinaria terra dove crescono prodotti unici, ma richiede cura, fatica e, soprattutto partecipazione».
Fare rete
Insistono molto i Nuvoletta sulla necessità di fare rete, di coinvolgere le istituzioni, certo, ma anche e soprattutto le scuole e le altre associazioni del territorio e i diversi soggetti impegnati nel riutilizzo dei beni confiscati. «Di fronte all’organizzazione della camorra siamo deboli, è inutile negarlo» dice Manuel «Coinvolgere i cittadini, i diversi attori istituzionali e sociali, fare di questi terreni un luogo di tutti deve essere allora la nostra forza». Un obiettivo che, giorno dopo giorno, si sta già realizzando ma che presenta diversi ostacoli: quando gli è stato consegnato materialmente il bene, nel febbraio 2014, pure la polizia municipale era reticente ad accompagnarli. Anche perché intorno ai terreni continuano a vivere i familiari di Antonio Simeoli cui sono stati confiscati «Nei primi mesi non è stato semplice» ci spiega Arturo «Ci vedevano come quelli che si erano presi qualcosa che apparteneva loro, ci accusavano di volerci arricchire. Ma noi qui veniamo ogni giorno a spaccarci la schiena, ed investiamo i nostri soldi rimarcando che questi luoghi non sono nostri, sono dello Stato, noi li abbiamo solo in gestione e qui può venire chiunque, anche i loro figli, anzi soprattutto i loro figli, perché se un genitore ha sbagliato le colpe non possono ricadere sui figli, ed anzi bisogna mostrare loro che c’è un altro modello di vita, che è possibile e praticabile un’altra strada. Noi lo facciamo ogni giorno».
Le difficoltà
Così, i rapporti con i vicini sono migliorati nel tempo, mentre restano complessi quelli con le istituzioni: Marano dopo la caduta dell’ultimo sindaco è guidato da un commissario prefettizio, ed è probabile che la commissione d’accesso determinerà lo scioglimento del consesso comunale per infiltrazioni camorristiche «Dopo l’assegnazione del bene, purtroppo, molto spesso, ci si scontra con il disinteresse delle istituzioni» raccontano i Nuvoletta «Non ci hanno mai ostacolato, ma certamente ci hanno affidato un bene carico di problematiche ed è necessario lavorare insieme per risolverle, non possiamo essere lasciati soli». Sono tante le problematiche legate a questi terreni entrati nel patrimonio indisponibile del comune di Marano: i fabbricati presenti risultano ancora abusivi (ma si sta lavorando nelle previsioni di legge per sanare l’abuso), la strada di pertinenza è privata ed il comune dovrebbe acquisirla, non c’è ancora la luce (l’allaccio è stato realizzato e pagato direttamente dai Nuvoletta nelle scorse settimane) e non arrivano nemmeno le condutture idriche. Per ora ci si arrangia portando le taniche, ed è stata acquistata una cisterna. Ma è evidente che il comune dovrà intervenire per garantire tanto l’allaccio idrico quanto l’immissione in fogna, sì da rendere pienamente realizzabile il progetto di riutilizzo di questo bene confiscato: farne una fattoria sociale che possa accogliere famiglie e studenti di Marano e non solo, e possa essere anche l’occasione di nuove possibilità di sviluppo ed occupazione. In questo senso è stata già siglata una convenzione con il comune, approvata con delibera di consiglio, perché su questi terreni possano essere assunti in tirocinio formativo giovani che vengono da percorsi complessi. Questo anche in previsione di realizzare un vero e proprio centro enologico, che possa trasformare, conservare e vendere in loco, insieme ad altri vini d’eccellenza, la falanghina prodotta nel vigneto confiscato. Vigneto che, inizialmente, la Regione Campania, per questioni burocratiche, aveva chiesto di espiantare e poi ripiantare uguale al precedente «Era incredibile: non risultando accatastato, ci avevano imposto di espiante le viti per poi ripiantarle com’erano. Un percorso burocratico che ci avrebbe portato non solo a perdere una straordinaria qualità di uva, ma soprattutto avremmo dovuto attendere anni prima di poter produrre vino. Fortunatamente siamo riusciti a dimostrare che si trattava di un vigneto storico, in primo impianto già nel 1983, e così a salvarlo. E’ stato fondamentale il supporto normativo e tecnico che abbiamo avuto dal Consorzio Sole».
Il ruolo del Consorzio “Sole”
Il bene, infatti, come altri presenti sul territorio di Marano, era stato trasferito al Consorzio di Comuni della Città Metropolitana di Napoli “Sole”, nato da un’intuizione di Amato Lamberti ed oggi guidato dalla Dott.ssa Lucia Rea, comandante del corpo di polizia provinciale. E’ stato il consorzio a metterlo a bando e quindi, dopo la manifestazione di interesse avanzata, ad assegnarlo alla cooperativa “per Salvatore Nuvoletta”. Il consorzio ha anche reso disponibili 14 mila euro per i primi lavori indispensabili a rendere fruibile il bene, quindi, soprattutto attraverso la preziosa collaborazione di uno dei suoi responsabili, Maurizio Conte, ha permesso di salvare il vigneto e continua ad accompagnare il lavoro della cooperativa: «L’azione del consorzio è molto importante» dice Arturo Nuvoletta «Non solo per il supporto diretto che ha garantito e ancora oggi ci dà, ma anche per la fondamentale azione di messa in rete dei soggetti che operano sui beni confiscati».
L’agricoltura sociale
Il nostro dialogo è interrotto dai ragli dell’asinello che vive su questi terreni con le galline allevate a terra, che producono uva biologiche, secondo un modello che si propone come alternativa a quello degli allevamenti intensivi. Non è un caso, infatti, che la cooperativa aderisce al Forum nazionale di agricoltura sociale ed è in rete con altre realtà, nazionali e regionali, che stanno proponendo un diverso modello di coltivazione e allevamento, fondato sui valori della solidarietà sociale e della sostenibilità ambientale. Una scelta che comporta anche dei costi: «Abbiamo scelto un modello economico che certamente comporta dei costi più alti, ma siamo certi che sia questa la strada da perseguire» spiegano i responsabili della cooperativa «Affrontiamo ogni giorno i costi della legalità e siamo felici di farlo. Noi non dobbiamo essere trasparenti, dobbiamo essere limpidi, abbiamo assunto questa prospettiva come un dovere. Chiediamo solo che lo Stato pretenda questo da tutti, non venga poi a controllare solo noi».
Riscoprire il territorio. Una speranza da coltivare
Continuiamo il dialogo con Manuel mentre ci accompagna a visitare i dintorni: una collina di struggente bellezza, ancora tutta agricola, con straordinari scorci sul mare, fino all’eremo di Santa Maria di Pietraspaccata, circondato da un rigoglioso bosco, che oggi giace in stato di assurdo abbandono, pur essendo stati qui ritrovati reperti risalenti addirittura al Neolitico «Vorrremmo che il bene confiscato diventasse anche il fulcro di nuovi progetti di turismo responsabile» dice Manuel «sì da riscoprire e tutelare tutte le straordinarie bellezze di questo territorio. Il nostro sogno, nel nome di mio zio, è restituire a Marano, ai suoi cittadini, soprattutto ai giovani, l’orgoglio di abitare questi territori». Se a dirlo, con gli occhi lucidi pieni d’orgoglio, è proprio un ragazzo di Marano, allora, con lui, possiamo davvero ancora coltivare la speranza di chi non si arrende alla banalità del “non può essere altrimenti”.
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